Mobirise
Enrica Capone

Nata a Salerno, vive e lavora a Roma.
Architetto inizia l’attività negli anni ’70 .
La sua ricerca si evolve verso la sperimentazione delle possibilità espressive della materia: impasti di sabbie di quarzo, di deserti, di vetro, lamine di piombo e di rame, fili orditi nella tela.
Un mondo plastico-pittorico che spazia dal figurativo all’informale e rivisita il mito e antiche tecniche. 

Echi e Riflessi

di Francesco Zero

Ieri abbiamo incontrato Enrica Capone, artista, architetto, nata a Salerno e residente a Roma, per parlare della Mostra personale dal titolo ECHI E RIFLESSI che dal 30 settembre al 10 ottobre 2023 si apre nella Galleria romana, in via Bisagno, PURIFICATO.ZERO. Una personale che sottolinea con la firma autentica di un grande gallerista il riconoscimento dei suoi risultati di artista affermata cui il futuro è pronto a riservare i successi che merita.
Una scoperta felice che ci ha mostrato un’artista piena di risorse e di propositi, sempre in evoluzione come il suo percorso artistico. Irrefrenabile, calorosa, completa, piena di echi e riflessi nella vita e nel lavoro.
Una ventata di novità e di passione per l’Arte. Nuove idee, progetti creativi e tanta filosofia da rendere bella e comprensibile con un gesto del braccio.
Trasmettere con le figure è stato sicuramente il primo passo dell’uomo verso lo scambio e la comprensione con gli altri e oggi, nonostante una evoluzione inimmaginabile dei contatti umani, per parlare in modo completo dei nostri pensieri più profondi torniamo a renderli semplicemente “segni e colori”. Una scoperta che da tempo gli artisti cavalcano con successo senza perdite di tempo, senza lati oscuri, senza inflessioni, senza falsità, senza reticenze.
Maestra di tutto ciò, Enrica Capone spinge verso l’elaborazione dei materiali più inaspettati, trattati e utilizzati su tele di iuta robusta e disponibile. Spesso dal fondo scuro, estremamente ricettivo per rilanciare le immagini e le suggestioni.
Enrica conosce bene le sue capacità e le sue riflessioni. La corrispondenza con le opere quindi è totale così che per noi è stato facile entrare nel suo mondo che comprende e traduce in espressioni visive e tattili tutti gli elementi materici di cui è composta la nostra terra e che troviamo, in qualche modo e comunque, nelle sue conversazioni pittoriche dall’ impatto emotivo indimenticabile.
Elementi che vengono polverizzati come le sabbie, gli ottoni, l’oro, l’argento, impasti di quarzo, deserti di vetro, lamine di rame, fili orditi nella tela e infine il piombo, suo grande amore di sempre che viene trattato in laboratorio con l’attenzione di una mamma che ama il suo piccolo e aspetta che cresca per dargli ancora di più. Schiacciato, appiattito, irrorato dagli acidi, lavato con l’acqua, accarezzato e piegato, illuminato e incollato, accarezzato e amato perché possa parlare del valore della vita.
Conservazione e invecchiamento viene riservato a un piombo ridotto in lamine che si allungano sul fondo della tela per dare contrasto e consistenza a tutte le altre parti della composizione dove poi la luce impera alternandosi con echi e riflessi, suggestioni e silenzi. Cieli, acqua e sassi, ombre e luci. E’ la terra o la luna o un mondo simile la realtà di ogni cosa sulla quale insiste la storia, la filosofia e la vita dell’uomo. Un orizzonte, uno ski-line e una concatenazione di parole e pensieri impliciti nel suo quadro come nel suo sorriso c’è sempre.
Uno spazio dove poter allungare lo sguardo che non trova mai un confine, un ostacolo un freno. Tutto si approfondisce perché tutto è senza fondo e si può scavare all’infinito in quanto una soluzione c’è sempre.
Il tempo esiste per far esistere tutto il resto. Una verità che Capone articola con le profondità che una luce lontana concede all’uomo. Ma all’uomo intelligente che sa e vuole capire tutto ciò che lo aspetta, con fiducia, senza restare fermo ad aspettare.
Difetti, limitazioni, ostacoli diventano elementi di forza per lottare con maggiore speranza, con certezze alternative. Capone non si ferma e vuole che l’uomo faccia lo stesso per la sua storia futura trovando in sé stesso la forza, lo stimolo e le soluzioni per farlo.
Enrica scolpisce sulle sue tele con l’idea di costruire. L’architetto che è in lei, più che il tratto, ama la sovrapposizione di pietra su pietra, l’alternarsi di gessi, argille, colle, fessure e passaggi, infiltrazioni e profondità
Sulla memoria storica insiste la progettualità di un futuro.
Non si ferma Capone perché laggiù in fondo qualcosa aspetta ancora l’uomo che è in marcia. Irrequieta e incoraggiante non mi ha lasciato mai solo. Nelle parole e negli sguardi c’era già il suo prossimo lavoro che io già intravvedevo in quel bicchiere di Coca Cola dove il ghiaccio e il limone riproponevano “Il tempo di ieri”; un sole giallo tra le montagne ombrate, dove l’attesa impaziente è un aiuto certo per la vita di domani. 

Enrica Capone ovvero “la joie de vivre”

di Lidia Reghini di Pontremoli

Mi ricordo e forse non lo scorderò più quel che mi colpì la prima volta che incontrai Enrica Capone.
Fu quel suo particolare modo di sorridere, aprirsi e rendersi eterea come una ventata d’autunno, quel soffio che scompagina e trascina le foglie ed i residui di vita con sé.
Più tardi pensai che quel suo modo di fare, di muoversi, di concepire la figura e la pittura derivava dalla sua estrema familiarità-forse solo affinità elettiva- con l’armonia ed il tempo sospeso di quel tale Henry Matisse.
Se Henry concepiva ogni suo quadro come un mezzo quasi umano per diffondere armonia e tranquillità, le figure di Enrica/Henry comunicano in un silenzio apparentemente immobile una concatenazione di parole e pensieri impliciti.
In questo Enrica mi appare così vicino ad Henry, in quel suo caparbio ostinarsi a concepire la pittura come luogo dove ogni tensione si distende per svanire, per poi essere forse dimenticata.
E quella linea che taglia la superficie non è ferita dolorosa ma feritoia, luogo privilegiato dove far scivolare la curiosità di quell’esploratore che sconfigge il voyeur per scoprire nuovi territori dello sguardo.
Nel bianco assordante figure colte nella loro dinamica immobilità lasciano intravedere l’esistenza di un orizzonte lontano che solo loro riescono a scorgere.
Donne che si smarriscono senza mai perdersi in un spazio-struttura mobile ed elastico che accoglie e non dissimula, non tradisce i significati espressivi dell’immagine.
Hic et nunc. Ma anche il voler essere altrove di figure arcaiche e moderne, comunque fuori dal tempo e dal conflitto stridente con al modernità: sono le ombre pesanti dei nostri passi, abbandonate nei luoghi dispersi della memoria.
Non ectoplasmi ma materia materiata resa corporea, mai pesante, dall’incedere tempo che passa, dai pensieri che si ammassano su un cielo prima della pioggia.
Le figure di Enrica Capone vivono e crescono nel bianco di un’antimateria dal silenzio assordante, si voltano come poco interessate a partecipare alla nostra quotidiana malattia del vivere.
Né romantiche né nostalgiche queste figure voltano le spalle per lasciar scorgere tra le pieghe di quell’anatomia la tensione addomesticata di una joie de vivre reale, anche a costo di dimenticare i drammi e le tempeste personali.
In ogni quadro non c’è preoccupazione, assillo stilistico del dover distendere in un qualche modo l’ordine prospettico.
Tutto si dà alla superficie con estrema naturalezza, come se l’artista possedesse quel dono raro e magico che solo alcuni veri pittori riescono ad avere, di riuscire a far affiorare i propri fantasmi interiori facendoli uscire dal silenzio. Ogni cosa, ogni avvenimento si compie sulla tela senza forzature, senza sgomitare semantiche o ammiccamenti engagé.
Enrica Capone forse è una pittrice d’altri tempi che riesce a conciliare un animo antico con la consapevolezza di uno spirito moderno. Antico è il legame con all’ausilio di tecniche che appartengono quasi ad una tradizione orale, comunque pretecnologica . Moderno è quell’estrema volitività , quell’ostinata caparbietà a guardare verso una direzione mai obbligata aggiungendo alla pittura ogni giorno sempre qualcosa, magari solo una pietra minuscola, frammento di un universo apocalittico che sono Enrica riesce a schivare.

Dia Logon

di Fausta Gabrielli

-Dunque, fai una personale!
-Si, e mi piacerebbe che scrivessi una cosa per me.
-Lo sai come vedevo le tue figure fanciulle.
-Mi ricordo, pensavi all'orizzontre che non c'era....
-Non te l'ho mai detto. Io le vedevo come proiezioni pittoriche
di voyeristiche visioni oniriche.
-Forse lo sono.
-Mi venne in mente un certo Odisseo che, indagando il limes,
navigava tra gli elementi ostili - o stili .....carino!!!
-Beh lui guardava alle terre e ai mari sconosciuti con questa donna in mente,
lontano da ogni approdo.
-Vuoi dire modernamente una specie di ossessione?
-Non so, ma perchè poi no? Dipingi riflettente levigatezza di pelle
e assorbente fluidità di capelli mentre la corporeità,i volumi sono sfuggenti
-Non sempre, a volte sono preponderanti anche se il segno è leggero.
-Quello che indaghi veramente è la crosta, la pelle di roccia.
L'intreccio di pieghe gonfie, rughe penetranti e oscurità.
-Vuoi dire fratture?
-Voglio dire che ERnrica/Odisseo ha in mente e porta con sé terre e sabbie, polvere e roccce.
Cercatrice d'oro di una terra oltre il limes, ha negli occhi morfologie
e anatomie senza cieli e senza sguardi. E nella mente un concetto altro per cui Psiche è Amore

Dall’ossessione del mito alla scoperta di Atena

di Paola Pinna

Pallas, la giovane donna di Enrica Capone che ossessivamente guarda all’orizzonte, passa il blu, il freddo che si mescola alla materia, alla sfera altra del cielo prende il calore denso delle terre.
Della terra cattura i bagliori rifranti delle sabbie e delle polveri di vetro.
Nei primi frammenti la superficie che copriva la materia era quasi compatta. Ora la materia profonda è più forte della superficie, riemerge e spacca lo strato della tela dove il tempo e la cultura hanno depositato le loro tracce.
Prende corpo una fenditura lunga tutta la tela e quella crespa nel muro scatena un’infantile voglia di infilarci il dito dentro, per ripetere uno dei tanti giochi di bambina… quello di stanare i ragni dai muretti a secco.
Il mare/specchio a lungo guardato finalmente depositerà a riva la dea: è Atena che ispirò le tele. E’ Aracne che ancora si nasconde.
La fessura di luce esce dal verde, dal profondo della materia. La fenditura è un via, un’immersione per cogliere, per prendere, per fermare quel frammento, quel ricordo che già appare.
Dall’interno, dall’assenza di ogni altra materia aggiunta, direttamente dalla trama larga della iuta già corruscano i barbagli, i bagliori di quarzo. Dalle spaccature filtra insieme un odore morbido e intenso, e da esse risuona prepotente un richiamo di frammento-ricordo-realtà.
Ma le fessure, i tagli della pietra sono già presenti nei frammenti decorati, nei pezzi di travertino dipinto,cercati apposta bucati, tarlati. I frammenti per Enrica Capone sono così improntati da essere identificati con i ricordi, con i frantumi di/della realtà cove però l’emozione è una: quel frammento.
Il resto è tecnica.
La sua pittura per sottrazione, fino al nudo lascia immaginare che la sua arte, la scultura di Enrica Capone sarà per emersione, per galleggiamento del colore del marmo pario, caldo al tatto, dolce e aspro di vento come i cammei di pietra lucidi di pioggia, scintillanti di sedimentazioni, memorie d’acqua di materia….pietra da richiamare alla luce. Né per sottrazione né per implosione pare già dare alla vita alla luce dei quarzi delle pietre, al colore, alle bande, alle venature del marmo caldo-rosa-di Condoglia, nel marmo fresco-verde-di Verona. O quello bianco-sacro-di Paro. Per sintesi artigiana del liscio e del ruvido.
Quella crepa, corpo che genera materia, si rappresenta senza interpretazione. E’.
Oggi, nel percorso interessante della ricerca della pittrice, la materia è il luogo del sogno essa , stessa, è “arte cucinata”, trasformata, con odori e calori, offerta al tatto, come una spalla o un gluteo stillato di sensualità. Il tatto e il contatto, le tele e il rapporto con la iuta grezza, far nascere dalla materia, toccare gessi, argille e giocarci ancora per il puro piacere del fare, e “toccare e immaginare dopo aver toccato”:sembra questo il processo artigiano di Enrica Capone… il massimo de piacere!!
Enrica Capone dipinge col tatto e l’olfatto. Passa la mano, sfiora, sfrega, accarezza ogni volta ogni parte di tela conquistata, ogni strisciata di sabbia fermata, ogni banda di colore versato, ogni fessura di iuta lasciata respirare.
Vi sedimenta il suo calore.. Ha eletto la sua casa a bottega artigiana: per godere fino in fondo del persistente degli odori di colle, olii, colori, trementine, e poter ridere di nascosto dell’intreccio del suo ricamo di tele.
Del mito, della ricerca originaria, rimane l’atemporalità del nudo. La sospensione dell’emozione, della ricerca e della creazione può muovere al pianto chi non segua gli sguardi, ma le linee delle figure piantate per terra a piedi nudi possentemente ancorate sulla terra squarciata e fessata ritornata, a quelle tracce leggere delle ferite che già si immaginano sul volto di Pallas. Altra tela da cui far tracimare altra luce, da nutrire del continuo tocco delle mani che strofinano, lisciano, percorrono tele e cartoni fino a riscaldare la cera perché colle e trieline spargano ancora le fragranze del cibo cotto, della materia.

Le proposte d’arte di Enrica Capone sanno di buono.

Saudade Panta Rei

di Elio Rumma

La pittura di Enrica Capone è espressione di un'anima extra-temporale,
quasi immateriale e i soggetti delle sue composizioni si trasfigurano
in messaggi subliminali che inducono ad un sentimento di velata mainconia
verso un luogo, o un attimo, che ci si è lasciati alle spalle nel passato.
I brasiliani definirebbero questo sentimento con il termine "saudade" che
sicuramente esprime meglio questo stato mentale.
Eppure non c'è tristezza nelle tele di Enrica: la meta degli sguardi è lì a
testimoniare un messaggio di pacatezza e di dolce atarassia: nulla può ferire
la serenità di una forza interiore raggiunta con piena consapevolezza.
Le forme femminili ben si adattano alla trasmissione di questo messaggio e,
laddove prendono più forza e consistenza come nella raffigurazione della maternità
esprimono l'eterno "panta rei" che trova la sua sostanzialità solo nel profondo della psiche.
I lavori di Enrica sono meditati, metabolizzati da un'intelligenza serena e non circoscrittta
da un "reale" che è privo di vera oggettività e la figura anche quando si
evolve verso la pura astrazione esprime sempre questo ineffabile senso di "vaquità",
un concetto ben noto nella dottrina buddista e, forse, incastonato anche
nell'inconscio della nostra artista.
Guardando queste opere viene alla mente un paragone con quella musica barocca di Boccherini o di
Benedetto Marcello che ben seppero esprimere un sentimento analogo, soprattutto negli "adagi",
quando la frivolezza lascia il posto ad una serena meditazione che, solo apparentemente,
induce alla tristezza.
Nel percorso pittorico di questa mostra risulta ben chiaro che Enrica Capone non insegue le
lusinghe del "facile" e del marcato e l'espressività visuale è dovuta ad un'intima esigenza di
estrinsecare la lunga attesa degli eventi della vita che, quando poi sono passato, vengono rivisitati
come un viaggio che vede i personaggi dell' Odissea scambiarsi il ruolo: Penelope pur restando
immobile, va alla ricerca di Ulisse, un simbolo più che una realtà in
quanto tutto è già presente nel profondo di noi stessi.

Oi Dialogoi

di Elio Rumma

La citazione platonica del titolo di questa mostra non si attaglia all'arte di Enrica Capone.
La sua pittura, infatti, trae origine e linfa dal continuo dialogo interiore alla ricerca dell'armonia, dell'equilibrio della bellezza, della conoscenza di se stessa e, quindi, del mondo
Tuttavia, questa interiorità non è chiusura verso l'altro bensì un approccio morbido, direi schivo, alle problematiche dell'arte contemporanea, intesa proprio come elemento dialogico in una società che sembra aver smarrito il senso dell'umanità.
Le forme classiche delle sue figure e le raffinate tessiture delle sue astrazione sono cos' attuali proprio perché esprimono l'eterno presenti si un'introspezione colta a metabolizzare e a sublimare la contraddittoria realtà che ci circonda.

Non a caso, i quadri di Enrica ispirano essenzialmente sentimenti di pace e di bellezza arcadica.

E' proprio in questa felice sintesi, di platonica ascendenza, che si sviluppa il discorso pittorico di quest'artista che, pur non amando le luci della ribalta, riesce ad essere un punto di riferimento per quanti, guardando alla "maieutica" della sua sperimentazione artistica - il sapiente usi e la perfetta miscelatura di materiali apparentemente così contraddittori e diversi - sentono il richiamo di sentimenti alti che fanno sentire in pace con se stessi.

L'eloquenza dei nudi di Enrica Capone alla galleria Il Labirinto

di Mara Ferloni

Roma - Con grande successo di pubblico e di critica di è recentemente conclusa la mostra personale di Enrica Capone alla galleria Il Labirinto, via dei Fienaroli, Roma. L'artista ha presentato nudi dalla dolce ed evidente femminilità nei quali la forma sublima la materia mostrando la consapevolezza della continuità della vita e denunciando una fragilità solo apparente che contrasta con la virilità del segno deciso, incisivo. E' un'artista di forme e armonie nel senso puro della parola che imprime alla sostanza la vitalità dinamica di una interpretazione personale. Nei suoi nudi che impasti di terre, sabbie, gessi e cere fanno diventare dolcemente languidi, tattili, c'è la verità priva di orpelli e l'anatomia del corpo femminile di snoda in ritmo continuo, poetico, lontana dal sapore di peccato: resta forma e perde ogni peso di carne,ogni richiamo di sensualità anche se la pelle sembra palpitare di vita e dà la sensazione che le sue creature vivano quella stagione in cui l'amore forma una sola cosa dell'anima e del corpo come ben recitano i versi di Antonio De Marco: Il tuo corpo è di anima/e in essa annullo il mio/per un'estasi eterna.... Osservando le immagini, raffinate, eleganti si resta nell'attesa che il dipinto si animi e Penelope dopo aver trascorso secoli di sonno possa riapparire più donna donna e più affascinante che mai, animata da quel soffio di umanità che solo i ricordi sanno dare, quando perdute le scorie della realtà resta quella sbiadita tenerezza che riporta al mondo delle illusioni. In ogni opera, siano nudi o superfici tagliate da linee, fenditure di paesaggi surreali, nei quali vibrazioni eteree fanno dissolvere la materia per trasformarla in luce, è sempre presente il senso della misura, dell'equilibrio,m del rapporto proporzionale. Sono sole le donne di Enrica Capone, assorte in una geometria di pensieri e come nell'abbraccio della Mater Materia riescono meravigliosamente a trasmettere la grande fiamma d'amore ed il senso di protezione dagli spacchi che nascondono il buio a cui la vita inevitabilmente espone. nelle Penelopi si avverte sempre l'ansia magica dell'attesa di ritrovare la propria identità per poi parlare indifferentemente di nostalgie o di rimpianti, di vita o di morte, di principio o di fine. La luce descrive la forma e rivela l'azione reciproca tra spazio e volume e il bianco-bianco, che impasti a volte rendono rosato come la pelle, a volte celeste diluito, lievissimo, quasi sussurrato, o rosso per un ipotetico tramonto che avvolge la figura perduta in un mare di blu: è un cromatismo particolare vissuto sulla pelle che provoca un moto suggestivo alla contemplazione e distribuisce a dare alla sua pittura una delicatezza degna di un maestro classico, straordinariamente moderno. Non basta la parte tecnica di Enrica Capone , architetto di indubbie capacità, un'artista autenticamente valida, ma è il suo pensiero, la continua ricerca, l'esigenza spirituale che la spinge a dare l'anima e palpito alle sue splendide creature così lontane, irraggiungibili che nell'eloquenza del silenzio diventano testimonianza concreta dell'eterno cantico della bellezza.

Enrica Capone e la grave levità della poesia

di Valeria Arnaldi

Iuta bianca, piegata in origami a farsi barca, decorata di iscrizioni, che non incidono la tela, ma leggere la cullano come onde, trascrivendosi però nell’anima in una poetica del riconoscimento filosofico-emotivo, che, immediato, è in realtà il frutto di un lungo percorso che dal Soldatino di Stagno arriva a Leopardi, tra fiabe e versi. Nell’opera di Enrica Capone, da un lato, il giocattolo si confermatale, liberato dalla fragilità della carta, per farsi carico di tutte le aspirazioni bambine che forse ha guidato in porto – porto quiete o porto di mare – dall’altro, si fa bottiglia consegnata ai flutti, emotivi ed emozionali, alla ricerca di un’anima Altra in grado di leggere e comprendere il suo messaggio.

Barca libera o vincolata su tela, rilancia la sua sfida alla vastità dell’orizzonte, per tornare a vele gonfie, anche di malinconia. L’immensità dell’ignoto è timore, “ove per poco il cor non si spaura”, ha sentore di morte e di abbandono, di smarrimento e crisi. Al di là della siepe, forse, la conquista della terra inesplorata, la finzione del regno nuovo. Al di qua, il vero dominio della psiche, il pensiero che finge. La barchetta guida, lanciata da un bambino gigante, consegnando i suoi occupanti, che siano pensieri o giocattoli, a una vertigine di solida emozione, fatta pure di poesia dello sguardo.

Dal catalogo di “C’era una volta…Gioco e Giocattolo”

MACRO TESTACCIO-LA PELANDA 14 febbraio-24 marzo 2013

Enrica Capone

di Alessandro D'ercole

Che sia scultura, o pittura o collage: non importa. E' importante solamente che sia materia. Una
materia forte, carnosa, come è carnosa la terra , o la pelle arsa dal sole.
Ma quella pelle può anche essere illuminata dalla luna, tramutarsi alchemicamente in acqua
argentea, o in mercurio comune, e talvolta ha bisogno di partire dalla materia vile del piombo per
poter operare la trasmutazione. E l'opera si organizza in strati geologicamente sovrapposti, per
lasciar luogo a formazioni scistiche, che la mano d'artista, sostituendosi al tempo disegna come lui
tempo disegna le età della terra, siglando il suo inesorabile passaggio; e lascia spazio soltanto ad
una coerenza che tutto lega, ad una appagante struttura che tutto collega, apparendo casuale solo a
chi non conosce quanto la creazione sia frutto di costanti tentativi e quanto tempo debba
impiegare il caso a provocare la bellezza.
La mano di una donna esprime insieme a questa forza tutta la sensibilità e la delicatezza che la
natura regala al femminile, allorché si trova in stato di grazia.
Ed allora la raffigurazione delle forze naturali che gli agenti del vento, del fuoco e dell'acqua
esprimono nel territorio, divengono sulla tela una serena contemplazione di questo equilibrio,
perché uniscono alla creazione di quella materia la delicatezza di un un atto d'amore; una presenza
spirituale che sublima nel metallo fuso e nelle terre variamente colorate anche la parte di anima
presente nello spirito del mondo. L'anima mundi è ravvisabile nei lavori di Enrica, ed i suoi bianchi,
più che di suprematismo sono il frutto di una comunione con la terra, e rimandano ad una preghiera
sommessa, ad uno spirito cosmico che permea la realtà, rendendola sublime a chi sa vedere, oltre a
saper guardare: ecco allora che le piume bianche su un fondo bianco e sul rilievo ancora bianco
della materia consentono all'insieme di volare verso l'alto. Non sono una composizione; sono
l'espressione di una filosofia, di una religione della natura che si appropria, attraverso la bellezza,
dell'equilibrio che Ermete regala agli adepti quando riescono a dare vita alla materia inerte. Questo
riesce talvolta, e raramente, soltanto agli artisti, ma quel che più colpisce la mente oltre che lo
sguardo nelle opere di Enrica è la presenza, il bisogno dell'artista di inserire nel contesto particolari
di delicata consistenza, che ammoniscono la natura maschile del resto dell'opera circa la necessità
che gli opposti si unifichino per generare l'equilibrio; quell'equilibrio che , anche attraverso un caos
che solo apparentemente domina, è il solo artefice della vera purezza. di una composizione; .
La materia plumbea o i metalli che si fondono con la terra, già imbiancata. e sublimata la prima da
un atto di preparazione e di manipolazione resi gli altri, attraverso il fuoco, eterei e plasmabili,
generano un insieme di plastico equilibrio; non è il colore o solo il colore a rappresentare valori
numerici, è la pesantezza ed il volume che rendono la materia il fattore determinante di
quell'equilibrio;
Questa via è stata percorsa da artisti come Baziri Bizhan, Agenore Fabbri, Fernando Melani, già
dalla fine degli anni 40 dello scorso secolo; ma in quella sperimentazione pregevole, che rimanda
alla scuola toscana ,dagli anni 50 in poi, manca quel soffio di femminile eleganza, che non è
asssolutamente ridondante o superfluo, ma che completa l'opera attraverso un riconoscimento della
spiritualità che la materia ha diritto di vedersi attribuire.
Anche nella scultura tutti i colori si confondono nella luce del bianco, e la parola, il logos, si
unifica nella composizione; diviene una ripetitiva allegoria all'essere, attraverso il nome ripetuto
dell'artista, che non si confonde soltanto nell'onda, ma che si rivolge verso se stesso come un
uroboro alla ricerca della unione dei contrari, della fine del tempo, della parola di passo che
conduca alla sovrapposizione di segno, suono e significato.
Onda di vibrazione che unifichi i campi, che generi la vita come nel dna delle origini. Il nome di
Enrica Capone ripetuto ciclicamente attraverso quell'onda che si perde nel mare e con esso si
confonde, è un grido alla individualità insieme alla socialità dell'uomo. E' un invito a riunire, e non
a separare. Un richiamo che segna il percorso a chi è schiavo della bellezza, e sa che è inutile
invocare il superamento del proprio” ego”, quando si è servi della bellezza; piuttosto è giusto farne
partecipi tutti dopo aver operato su se stessi nel laboratorio alchemico della propria anima. Per
fluidificare le nostre passioni. Una mostra da non perdere.

Racconti di Materia

di Katia Monacelli

Di terra, di fuoco, di acqua e di aria, tutta l’opera di Enrica Capone sembra ispirarsi ai quattro elementi dominanti della natura
e ai processi alchemici e di trasformazione che da essi scaturiscono.
Le sue opere sono collegate ai momenti ancestrali dell’universo, in cui tutto si muove con vemente energia
conquistando nuove forme e nuovi spazi.
Il bianco, il giallo ocra e tutti i colori caldi delle terre, cuciti assieme da trame della memoria, conquistano volumi
inaspettati e si dilatano grazie al gesto materico che Enrica Capone è in grado di infiggere sulla
tela, producendo un’immagine vocata all’infinito e che si irradia sapientemente oltre lo spazio
serrato del supporto artistico. A guardare bene, come in uno specchio, ci si trova immersi in orizzonti non troppo lontani
dalla nostra quotidianità: è un tramonto, è il mare, è il cielo calmo d’estate, è il profondo di noi stessi.
Originale e allo stesso tempo identificativo è, invece, l’inserimento del nome Enrica Capone nell’opera,
che come in un mantra, si ripete a stretto ritmo, liberando un’energia che avvolge lo spettatore e lo conduce verso luoghi lontani.
E dall’oscura profondità anche la materia si libera attraverso ruvide sabbie, lamine di piombo e di rame,
inserimenti di vetro e superfici ferite da crateri. Dall’amalgama degli elementi pian piano tutto si
ricompone con incredibile equilibrio estetico. Si rimane così sospesi in scenari di quiete e mistero
che si fanno portavoce di nuovi percorsi di consapevolezza.

Enrica Capone

di Serena Borghesani

Con l’estrema grazia di un intelletto muliebre Enrica Capone plasma,
come una novella artigiana, sabbia, legno, carta,polveri di vetro, colori;
odori, sapori, suoni di un tempo che tornano e si muovono sinuosi sotto le
sue sapienti dita.
Con la minuzia lenticolare del suo buon creare dosa sapientemente la
brusca sabbia, che da rude roccia sedimentaria sciolta si disperde in
granuli infinitamente piccoli per poi tuffarsi nel colore e stendersi sulle
superfici delle sue opere, siano esse bi o tridimensionali.
Un animo gentile traspare da ogni sua creazione, le sculture sono pitture
d’insieme e le pitture bassorilievi materici, tangibili e corposi.
Il tratto, la linea, lo squarcio nella tela non rivelano cicatrici trasudanti
inquietudini ma bensì paesaggi limpidi di luoghi lontani, caldi, bruciati
dal tempo e dal sole con cui Capone riempie la scatola della memoria.
“(...)Sorge nell'alta campagna un colle, sopra il quale sta la maggior
parte della città; ma arrivano i suoi giri molto spazio fuor delle radici del
monte [...] dentro vi sono tutte l'arti, e l'inventori loro, e li diversi modi,
come s'usano in diverse regioni del mondo” .
Tommaso Campanella – La città del Sole
Come il trascorrere del tempo graffia i ricordi così l’artista segna le sue
superfici, con un susseguirsi logico di tratti, a volte con un alfabeto
continuo, infinito e circolare ( come il ripetersi del suo nome) che si
trasforma in una cantilena apotropaica, quasi onirica,altre volte
lasciandoci un messaggio visivo e crittografico allo stesso tempo, schegge
dal forte potere evocativo.



novembre 2014 per mostra a Palazzo Rospigliosi ­ Zagarolo

Penelope

di Marcello Smarrelli

Penelope non si lascia ritrarre ma la sua faccia la conosciamo perché l'abbiamo vista al Louvre sul corpo sinuoso e sensuale della Venere di Milo, agli Uffizi nella Venere di Urbino di Tiziano e, ancora, nelle bagnanti di Ingres, nelle donne di Algeri di Delacroix, nelle decine di odalische di Matisse.

Un genere - quello dei grandi quadri di nudo femminile - di esclusivo appannaggio di artisti uomini per il godimento di committenti uomini. Donne dai corpi espansi, carni che lievitano su rasi, sete e lini meravigliosi che impreziosiscono letti imbanditi come tavole per lussuriosi pasti.

Occhi puntati verso lo spettatore, occhi carichi di mistero, di espliciti inviti per la pudicizia ostentata nel coprire le parti più intime rende ancor più allettanti.
Donne come oscure ammaliatrici che nascondono nell'utero il segreto della vita e la metafora della sua perdita nello stralunante oblio dei sensi impegnati nell'amplesso.

Donne di cui questi uomini presuppongono di conoscere la vera natura, l'intima essenza dei desideri, donne che da sempre gli uomini proclamano di voler capire ma senza dover mai far la fatica di entrare nell'altra metà di un mondo che si è formato in millenni di pregiudizi e di mal comprese aspirazioni che oggi ministerialmente chiamiamo il raggiungimento delle pari opportunità.

Cosa pensa, ci chiediamo, La Maya/Penelope di Goya, vibrante nell'attesa di essere vestita o spogliata, come una Barbie primigenia in balia dei gusti del generalissimo Godoy/Ulisse, quando smette di essere un raffinatissimo giocattolo?

Cosa pensa la Bagneuse di Valpincon/Penelope di Ingres, fissando il telo di lino che ha di fronte e le chiude lo spazio come il muro di una prigione ( il lavoro, i figli, il marito e rimanere femmina, piacevole e piacente) che lei stessa ha tessuto per continuare a vivere?

Questa nostra Penelope ha avuto il coraggio di strappare il lino che le copriva l'orizzonte e avvolta nel suo scoglio di stucco, nella sua valva di pietra non ha paura di fissare il vuoto pieno di cielo che la sovrasta e sembra inghiottirla.

Quel vuoto invaso di luce è un'incognita che non può né vuole ricevere soluzione.
Non è il mistero naturale, leonardesco, che lo scienziato può indagare per scoprire la causa del fenomeno, non è il mistero della "causa prima" dove si incontra Dio e ci si prostra per adorarlo: il mistero di Penelope è il mistero stesso dell'essere, che significa tutto e nulla e può sopravvivere solo se non gli si chiedono spiegazioni.
È il luogo della non vita che genera vita, lo spazio di un'attesa che è condizione, la dimensione di una ricerca che è già meta.
Ogni volta che Penelope è stanca di vivere con la faccia immersa nella realtà, nell'alternanza di attese soddisfatte ed altre miseramente deluse, nella lotta per la conquista di essere una donna che non deve più lottare per questo, si affaccia a rimirare il suo orizzonte segreto dal quale sa che non vedrà spuntare mai nessuna nave e, nell’azzeramento dei contrasti, finalmente si riposa.

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